Nel settore del digital i dati personali valgono più dell’oro: grazie a strumenti sempre più sofisticati si può arrivare a conoscere davvero molte cose su chi naviga su Internet. E tutti noi siamo online. In realtà però, fatta eccezione per servizi che necessitano di chiedere informazioni personali esplicite (come nome, cognome, mail), di norma a nessuno interessa la reale identità di un utente, i dati devono essere big data quindi grandi numeri aggregati perché siano significativi. Una parte dei dati, però, è costituita dalla geolocalizzazione dell’utente; fattore questo importantissimo per le aziende che offrono servizi nel raggio di qualche Km. Molte app che installiamo nel cellulare, ci chiedono espressamente il permesso di usare questo parametro, e molti, senza pensarci, accettano incondizionatamente. Siamo disposti a cedere a Facebook Inc. (che, ricordiamo, possiede tra le altre cose anche Whatsapp e Instagram, e perfino Giphy) ogni giorno tutti i nostri dati, incluse foto (anche di minori), video, messaggi, audio, spostamenti, interessi. Certamente, in forma anonima e aggregata, ma chi ha letto tutte le condizioni di privacy? Non è un mistero che questi dati siano una ricchezza: è sulla base di questi che viene erogata la pubblicità che noi tutti vediamo. Sembra pervasivo e lo è. Del resto è un servizio gratuito gestito da un’azienda privata per cui una fonte di remunerazione dovrà pur averla. Ma noi siamo disposti a farlo; la domanda è: perché?
Le persone, anche se si dichiarano preoccupate e interessate riguardo la raccolta e l’utilizzo dei loro dati personali, li rivelano in cambio di piccole ricompense, molte delle quali sono intangibili, come riconoscimento e attenzione dei pari come accade nei social network. La dicotomia fra atteggiamento e comportamento viene definita in letteratura ‘privacy paradox’ o meglio ‘information privacy paradox’ quando si riferisce specificatamente a raccolta, archiviazione, elaborazione e diffusione dei dati personali. I primi studi risalgono al 2001 quando Brown individua per la prima volta un paradosso: le persone che intervista esprimono preoccupazione rispetto alla privacy eppure allo stesso tempo effettuano acquisti online cedendo di fatto dati personali in cambio di sconti.
Secondo Acquisti (2004) questo avviene perché siamo soggetti al bias della gratificazione immediata. Le nostre scelte non sono pienamente razionali e ponderate, ma spesso guidate almeno in parte da bias: secondo il suo modello, barattiamo senza pensarci troppo i nostri dati con un vantaggio immediato, che sia materiale o immateriale come lo sconto su un prodotto, il riconoscimento sociale, risparmiare tempo con operazioni online. Non fa differenza quanto siano sensibili i dati condivisi (certo c’è differenza tra il divulgare l’età o l’indirizzo di casa): le persone danno un peso maggiore ai benefici attesi piuttosto che ad eventuali rischi.

Nell’emergenza covid di quest’anno è spuntata l’app “immuni”, che dovrebbe monitorare gli spostamenti e i contatti di chi volontariamente si presta a tale scopo. Questo obiettivo, pur nobile nell’intento, cioè di evitare la diffusione del contagio, fa a pugni con il desiderio di riservatezza. In questo caso la contropartita non esiste per l’utente, non potrà usufruire di sconti, né di privilegi o altre gratificazioni. Rimane solo la paura di essere “attenzionati” dalle autorità in caso di contatto con i positivi, e di essere messi in quarantena.

Gli esperti però ci avvisano che qualsiasi app che installiamo nello smartphone è un potenziale “immuni”, specie se consentiamo la geolocalizzazione. Nulla sappiamo del codice che gira sottotraccia nell’applicazione, il suo comportamento, e l’uso dei dati che potrebbe prelevare. Un “cavallo di troia” potrebbe semplicemente aiutare in maniera del tutto nascosta all’utente, i suoi desideri, i suoi spostamenti, le sue abitudini, i suoi contatti, e magari farne un uso illecito. A quanti di voi è capitato di ricevere una mail sospetta da un amico, salvo poi scoprire che non era lui?