“La pandemia di coronavirus dimostra che l’era della globalizzazione è finita” – lo ha detto Donald Trump in un’intervista a Fox Business. E non abbiamo motivo per non crederci. Ma torniamo indietro nel tempo, a partire dal lontano 1999 quando nascevano i movimenti “No global” di protesta e opposizione alla globalizzazione. Si sono formati in moltissimi Paesi e sono collegati tra loro.
Vengono definiti anche Popolo di Seattle dalla prima protesta che mossero, in occasione della conferenza che nel 1999 si tenne proprio nella città americana per regolamentare il commercio globale.
I No global sostengono che la globalizzazione elimini ogni peculiarità nazionale, regionale o locale a favore della produzione massificata di qualunque oggetto, dal cibo fino ai software per i computer.
Sono uniti dall’attenzione per temi come la difesa dell’ambiente, la povertà, l’esclusione sociale, la disoccupazione, il debito dei Paesi poveri, il potere delle multinazionali. In particolare, contestano le multinazionali farmaceutiche, ritenute responsabili, attraverso la protezione dei brevetti, della mancata produzione di medicine a basso costo. Accusano il WTO (Organizzazione mondiale del commercio), la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale di imporre politiche economiche tale da impoverire sempre di più i Paesi in via di sviluppo. Oggi, alla luce dei nuovi scenari innescati dalla pandemia, possiamo affermare con rigor di logica, che gli obiettivi di questo movimento non sono stati raggiunti, o per meglio dire, si sono annacquati in una visione apocalittica globale costellata da una miriade di realtà locali quasi tutte allo sbando.