Il 31 maggio 1930 a San Francisco nasce Clinton Eastwood senior, oggi un monumento coi suoi 90 anni. Il ragazzo cresce errabondo (cambierà 10 scuole in 10 anni) e resta in California quando i suoi vanno a vivere in Texas. “Parlavo poco – racconterà – vivevo in un mondo tutto mio e l’unica cosa che mi appassionava era la musica”. In verità anche i serpenti (da ragazzo ne aveva 13 in casa) e la recitazione con cui conquistava le ragazze. Con la voglia di emergere, lo sguardo magnetico e l’andatura dinoccolata copiata dal suo idolo Gary Cooper riuscì a strappare piccole parti nei B-Movies degli anni ’50; poi divenne protagonista del serial “Gli uomini della prateria” che decollava sulla CBS nel 1959. Sul set rubava i segreti del mestiere e in tv divenne presto popolare. Il personaggio di Leo Di Caprio in “C’era una volta a Hollywood” di Tarantino è un omaggio intinto nel veleno a quel periodo della sua carriera, giacché fu allora che il suo agente gli propose il copione di “Per un pugno di dollari” (1964). A incuriosirlo – racconta – era l’aver riconosciuto nella trama i film di Kurosawa che Hollywood aveva ripreso con “I magnifici sette”.

Accettò anche per far contenta la prima moglie, Maggie Johnson, ma si scontrò con la CBS che non lo voleva lasciare libero per il tempo delle riprese in Italia. In valigia, alla fine, mise un nuovo contratto per la tv e un poncho comprato per l’occasione.

Dal canto suo Sergio Leone si affidò a lui dopo il rifiuto di molti altri attori e un serrato negoziato al ribasso sul compenso. Per caratterizzare il personaggio dell’Uomo senza Nome gli impose un cappello e un sigaro toscano: una sofferenza continua per uno che detestava il fumo. Ma così nacque la sua fortuna e un cliché inedito nella storia del western. Eastwood tornò in patria senza sapere degli alti incassi della pellicola: il film aveva anche cambiato titolo. Fu sorpreso quando Leone lo richiamò l’anno dopo sul set di “Per qualche dollaro in più”; quello che stava nascendo era un rapporto da figlio adottivo. “Il buono il brutto il cattivo” del ’66 fu un successo internazionale, ma i tre film approdarono a Hollywood solo dopo il 1967 e Eastwood doppiò sé stesso sostituendosi a Enrico Maria Salerno che in italiano gli aveva dato una gamma di sfumature inedita. Al western sarebbe tornato più e più volte, sia come attore (“Impiccalo più in alto”) che come regista (“Il cavaliere pallido”), fino all’epopea de “Gli spietati” che oggi sancisce la sua inconfondibile icona.
Il 1968 segna la terza svolta della sua carriera: incontra Don Siegel sul set di “L’uomo dalla cravatta di cuoio”, western metropolitano e violento e da lui impara quel che Leone non poteva dargli: come rendersi credibile senza un poncho addosso.
Conserva il cappello (da texano questa volta) e il carattere chiuso e ruvido. Da Siegel eredita anche lo spirito anarchico, libertario, anticonvenzionale.
Negli anni ’70 la serie “Ispettore Callaghan” con Siegel gli regala grande popolarità; il debutto come regista è in “Play Misty for me” (1971). Nasce la sua compagnia di produzione Malpaso, presto nota per la capacità di ridurre i costi inutili degli Studios. Produce ormai tutti i suoi film e, nonostante alcuni insuccessi, è un “valore sicuro” per la distribuzione Warner. Al tempo dell’Ispettore Callaghan sia lui che Siegel furono accusati di fascismo ed eccessiva violenza nella rappresentazione della polizia; ebbe critiche feroci sullo stereotipo del personaggio. I due risposero nel 1979 con “Fuga da Alcatraz”, incondizionatamente osannato. Intanto Eastwood si era costruito una solida fama di divo totalmente americano, eroe senza macchia in un mondo corrotto. Nel 1993 con “Gli spietati” arrivò anche la gloria dell’Oscar con due statuette e un diluvio di nomination. Due anni dopo avrebbe avuto l’Oscar alla carriera e poi altri due tra “Mystic River” e “Million Dollar Baby”; con “Gran Torino” ecco la celebrazione come il nuovo John Ford. Al regista di “Ombre rosse” assomiglia per le comuni radici in un idealismo puritano, per l’idea di una frontiera incisa nel Dna del melting pot statunitense, per la malinconia di un tempo che trascorre inesorabile, per la passione del cinema come artigianato completo e libero, per il sottofondo tormentato dei personaggi che tutti devono espiare una colpa e cercano una redenzione. Ma il vero tratto in comune con la grande tradizione hollywoodiana è l’economia espressiva: pochi movimenti di macchina, grande attenzione agli attori, profondità di campo, senso dello spazio, piglio epico che tende all’elegia. Più volte ha dichiarato di voler scomparire dai suoi film come attore e poi si è smentito nel recente “The Mule”; di fatto si ispira sempre più spesso a personaggi reali che porta sullo schermo come eroi del quotidiano, da “Sniper” a “Sully” o a storie del passato come per “E.J. Hoover” o “Changelling”. Nella vita privata assomiglia sempre più a un monumento. Ma non è di carattere facile e ha punteggiato la vita di storie sentimentali e figli (ben 8). Il ritratto che la sua compagna Sondra Locke ne ha fatto durante una velenosa causa di divorzio è impietoso. Ma ora che compie 90 anni per tutti noi rimane sempre Clint, il silenzioso, il tormentato, l’ironico Uomo senza Nome.