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Il Blog di Katya

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Morto Dario Fo, il Nobel dell’Opera Buffa

dario-fo Se n’è andato. L’attore sommo e il sommo drammaturgo. Il regista, lo scenografo, l’impresario. Lo scrittore e il pittore. L’uomo di sinistra fuori dal coro, il militante senza bandiere. Il giullare che si fa beffe del potere, il Nobel che fa infuriare gli intellettuali scornati. Dario Fo. Morto a 90 anni e sette mesi per problemi polmonari. Era ricoverato da 12 giorni all’ospedale sacco di Milano. Un’esistenza lunga e fortunata. «Esageratamente fortunata», ripeteva lui che a differenza di quelli mai contenti sapeva dire grazie alla sorte. Quando mai il figlio di un capostazione, nato il 24 marzo del 1926 in un paesino del lago Maggiore, poteva sognare quel destino buffo che le stelle avevano in serbo per lui?

Franca Rame manda in tilt Dario con un bacio
Tutte quelle vite, una più straordinaria dell’altra, una dentro l’altra, riflesse come in un gioco di specchi capace di moltiplicare il tempo e le storie. Dagli anni dell’Accademia di Brera, così ricchi di stimoli culturali, ai brutti mesi con la divisa della Repubblica di Salò «per non finire deportato in Germania». Dai testi radiofonici del Poer nano all’esordio con Parenti e Durano al Piccolo Teatro con Il dito nell’occhio, all’unica esperienza cinematografica, con Carlo Lizzani che gli cuce su misura il film Lo svitato. Ma fatale è l’incontro con Franca, la donna della sua vita, la compagna di scorribande d’arte e d’amore. Di bellezza folgorante, corteggiata da tutti, manda in tilt Dario inchiodandolo senza preamboli con un bacio, visto che lui non osa avvicinarla. Amore a prima vista, matrimonio borghese, in chiesa a Sant’Ambrogio, la nascita di un figlio, Jacopo, che erediterà la loro passione per la scena. Un’unione salda anche se inquieta e fuori da ogni schema. Fo e Rame uniti nonostante tutto dentro e fuori scena.

La messa al bando dalla Rai democristiana
Insieme danno vita agli scombinati titoli degli anni ‘50-’60, Gli Arcangeli non giocano a flipper, Chi ruba un piede è fortunato in amore, La signora è da buttare. Insieme debuttano in tv nella scandalosa Canzonissima del ‘62 che gli costò la messa al bando per 14 anni dalla Rai democristiana. E poi il grande successo di Mistero Buffo nel ‘69, dove Fo riprende a modo suo la lezione dei fabulatori e dei cantastorie, raccontando tra sacro e profano, sberleffi e commozione, le storie della Bibbia e dei Vangeli, di papi tronfi e di villani sagaci. Ma il ‘69 è anche l’anno della strage di piazza Fontana, inizio della strategia della tensione. Storia e cronaca entrano prepotenti nel teatro di Dario, che sera dopo sera scrive e riscrive le pièce modificandole in diretta sugli eventi. Così è per Morte accidentale di un anarchico, sulla morte di Pinelli; così per Il Fanfani rapito, Non si paga non si paga, Pum pum! Chi è? La polizia, Tutta casa, letto, chiesa, Clacson, trombette e pernacchi. Sono gli anni ruggenti della Palazzina Liberty. Un teatro che, come scrisse Roberto De Monticelli, aveva dentro «il nero dei titoli dei giornali». E difatti la polizia trovava ogni pretesto per fermare gli spettacoli, irrompendo talora anche in teatro. Con grande divertimento di Dario pronto a trasformare quell’imprevisto in una nuova farsa. Un susseguirsi di satire al vetriolo, sulle quali Dario spandeva a piene mani il suo grammelot, folle assemblaggio di suoni di parlate diverse, nonsense linguistici accessibile a tutti. Una magnifica invenzione che, insieme con l’imponente corpus drammaturgico, quasi un centinaio di testi teatrali, gli valse nel 1997 il Nobel per la letteratura.

Grazie a Ruzzante e Molière
Accolto con entusiasmo all’estero, un po’ meno in patria, dove molti scrittori e poeti digrignarono i denti, stupefatti e biliosi per esser stati scavalcati in tanta gloria da un buffone irriverente. Che, come diceva la motivazione degli Accademici svedesi, «seguendo la tradizione dei giullari medioevali dileggia il potere restituendo dignità agli oppressi». Laudatio a cui Dario rispose ringraziando quegli anonimi maestri, ma anche Ruzzante e Molière, e soprattutto Franca. Con cui volle spartire la medaglia riconoscendole pubblicamente il ruolo di coautrice di tante commedie e consigliera impareggiabile. Impossibile pensare l’uno senza l’altra. Ma poi ecco che Franca muore, il 29 maggio del 2013, e Dario per la prima volta deve andare avanti da solo. Azzoppato, gli occhi celesti stanchi e dolenti, eppure sempre curiosi e beffardi. Consapevoli che la vita, come l’amore, come il teatro, spesso fa male. Al lutto di Franca si aggiungono quelli di Enzo Jannacci, amico e complice di canzoni irriverenti, da «Ho visto un re» a «El purtava i scarp del tennis» e quello recente di Gianroberto Casaleggio, amico e alleato su nuovi fronti politici. Ma è Franca a mancargli sempre di più, la perdita non è sanabile, il lavoro è il miglior analgesico.

Scrive e dipinge, sempre vitale
Con disperato furore e rinnovata vitalità Fo non si dà tregua. Scrive un libro dopo l’altro, dipinge con l’energia e la gioia di un ragazzo quadri di colori vivacissimi esposti in mostre in Italia e all’estero. Sempre attentissimo alla vita pubblica, non si perde una polemica, tiene banco a incontri, continua ad andare in scena con il testo più amato, Mistero Buffo, nonostante il parere contrario del medico, nonostante il fiato gli manchi sempre più spesso. L’estate nella casa di Cesenatico, così cara anche a Franca, non riesce a frenare tanta smania di vivere e di fare. Di morire Dario non ha nessuna intenzione. «Non temo la morte ma neanche la corteggio. Se hai campato bene è la giusta conclusione della vita». Anche sul letto d’ospedale, nonostante la maschera d’ossigeno, ha trovato la forza di scherzare sul suo stato di salute: «È come una sfida a ramino. Puoi vincere o perdere, ma quel che conta è la partita». Certo, ingannare la morte lo divertirebbe. Sarebbe pronto anche a barare… Mesi fa, nel cortile della sua casa milanese di Porta Romana, era rimasto incantato davanti a una rosa sbocciata all’improvviso, fuori stagione. Si era convinto che fosse stata Franca a fargli quel dono, come segno di una sua presenza costante. «Lei è sempre accanto a me, ogni volta che non so come trarmi di impaccio, la chiamo e mi risponde». Quella rosa ne era la prova provante. Chissà se adesso lì accanto ne crescerà un’altra.

di Giuseppina Manin, Corriere della Sera


 
 

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